Il nostro concerto
“Forse mi sono rincretinito. Passo la vita ad inaugurare pianobar e probabilmente ho perso il senso del mio mestiere. Vivo alla giornata. Faccio quello che mi si chiede. Vado dove mi vogliono. Non mi danno per una partecipazione televisiva o per una intervista”.
Era cambiato Umberto Bindi. La mitezza del carattere aveva lasciato spazio alla rassegnazione, arretramento dell’anima che consente di attendere il domani senza improvvisi lampi di dolore o squarci di nostalgia per ciò che più non avremo.
Dimenticate le pellicce vistose, gli anelli sfarzosi, gli ammiccamenti ironici ed a volte provocanti sulla propria omosessualità.
Dimenticate le piccole intemperanze di gioventù originate da uno slancio vitale che lo obbligava, suo malgrado, ad un esistenza sregolata e sgualcita: una denuncia per atti osceni, frode fiscale, insolvenze.
Dimenticate anche le lunghe teorie di finti amici di corte che rafforzavano, con raggiri e spoliazioni, il vento che, lentamente, portava alla deriva la propria vita.
Dimenticato, a sua volta, da impresari, produttori, musicisti e dirigenti televisivi, Bindi aveva intrapreso, anzitempo, lo sconnesso ed accidentato viale del tramonto, senza protesta, senza clamore. Quasi interpretasse l’ostracismo che accompagnava il suo nome come la pena da espiare per avere vissuto un brevissimo tratto della propria età adulta a briglie sciolte, ubriaco di successo, desiderio ed amore. Aveva mostrato il volto della propria omosessualità in salotti timorati da Dio ed in palcoscenici televisivi ammantati di perbenismo. Luoghi e testimoni di una Italia bigotta e provinciale che non tollerava scelte di vita alternative e per di più baciate da uno straordinario successo. Dopo aver scritto canzoni senza tempo: Arrivederci, Il mio mondo, Il concerto che avevano scalato le vette delle classifiche internazionali, vendendo milioni di dischi, Bindi, furtivamente, fu estromesso dal consorzio civile. Nessuna scrittura, rinnovo di contratto, interviste od apparizioni televisive. Qualcuno, tra gli amici più cari, lo aveva avvisato ”ti distruggeranno”. Ma Bindi era troppo ingenuo per credere che la stupidità umana fosse così puntuale e crudele. La sua indole lo condusse all’errore di valutazione e finì sulle navi da crociera ad intrattenere, con le proprie canzoni, la stessa borghesia che aveva decretato la sua morte civile. Si abituò a vivere il nuovo giorno come fosse l’ultimo, incurante del domani che immaginava certamente più grigio e faticoso. Poi toccò ai pianobar dove le sue note si accompagnavano al rumore di piatti, forchette e mandibole. Suonava astraendosi da clienti e camerieri, nell’illusione di essere ancora davanti ad un pubblico che lo amava, capace di infondergli nuova energia e quella sensazione di protezione che solo l’affetto sa donare. La notte tornava in appartamenti sempre più angusti e disadorni, sino ad abitare, in due piccoli vani, sulla Cassia bis insieme al proprio compagno. Forse in quelle notti insonni che trascorreva in compagnia dei versi di Lorca o Rimbaud, ricordava le bellissime abitazioni che aveva arredato con eleganza e sensibilità: enormi, solari, accoglienti, come la casa in cui, nel 1975, era morta nel modo più tragico e violento sua madre. Una perdita che mutò per sempre il battito del cuore di questo straordinario maestro della canzone melodica italiana. Ma Bindi non smise mai di comporre, nemmeno nei giorni più tristi.